"L'Agnese va a morire" di Renata Viganò
Uno dei rari, rarissimi libri che hanno segnato e testimoniato la Resistenza delle donne partigiane nell’Italia fascista.
Di Chiara Pizzulli
Oggi vi parlo di uno dei rari, rarissimi libri che hanno segnato e testimoniato la Resistenza delle donne partigiane nell’Italia fascista. Parliamo di “l’Agnese va a morire” pubblicato nel 1949 da Renata Viganò, una tra le poche voci femminili che la storia ha riconosciuto come autorevoli.
Il libro parte da un'esperienza autobiografica vissuta da Viganò proprio in quanto partigiana bolognese che ha seguito e combattuto strenuamente al fianco del figlio e del marito gli attacchi delle brigate nere.
Di romanzi autobiografici, testimonianze e racconti dal fronte ne abbiamo una considerevole quantità, ma ciò che rende questo libro unico nel suo genere è la prospettiva dalla quale è narrato. Non parliamo di uomini occupati in battaglia né tantomeno di azioni politiche, ma di una donna di cinquant’anni che decide di unirsi alla Resistenza di seguito alla morte di suo marito per mano di un tedesco.
Agnese è una donna stanca, segnata dalle vicissitudini e, soprattutto, è apolitica. La sua dedizione alla cura dei partigiani e i sacrifici che quotidianamente compie per tutelarli non hanno colori o fazioni, si legano semplicemente a una idea morale, a quel principio per cui ognuno e ognuna ha diritto di vivere in libertà.
Viganò pone l’accento proprio su questo aspetto sviscerando una questione che oggi come ieri si rivela centrale: ogni vicenda umana è stata ritenuta di appannaggio politico, tutto è polarizzato a destra o a sinistra, ma in verità molte e molti civili avevano deciso di schierarsi dalla parte della Resistenza partigiana non abbracciando alcuna bandiera, ma solo per la convinzione che morire liberi sarebbe stato meglio di una vita al servizio dell’oppressore.
L’autrice ci ricorda, dunque, che la guerra partigiana non ha assunto connotazioni politiche quanto piuttosto morali. È stata infatti la vera, prima guerra di popolo combattuta in Italia. Ciò significa che non aveva alcun interesse se non la prosecuzione di una vita degna di essere vissuta. I partigiani non erano soldati (parola che deriva da “soldo” appunto, dunque non godevano di retribuzione statale), erano cittadini e cittadine che avevano perso tutto e lottavano in rivendicazione della propria libertà. Ricordiamo che il popolo aveva vissuto sotto monarchia e poi sotto dittatura, per cui l’ingente bisogno di resistere deriva da una situazione sociale ed economica disastrosissima giunta al collasso. Se non ci fossero stati moventi così significativi, probabilmente il popolo non avrebbe deciso di rischiare la vita.
Tutto ciò si esacerba ancora di più se pensiamo alle donne italiane, costrette a essere spettatrici inermi in molti casi di figli e mariti uccisi dal fascismo, dai tedeschi e ,a dire il vero, anche dall’esercito di liberazione statunitense che quando si trattava di sparare non faceva differenze tra nazisti e civili.
Molte donne, stanche di assistere a uno spargimento di sangue, si arruolarono e svolsero ruoli di staffetta tra i vari punti della resistenza al fine di permettere una comunicazione e uno scambio di beni di prima necessità tra le varie celle. Il sacrificio di molte di loro ha permesso agli uomini di sopravvivere e muoversi cautamente, hanno ricoperto un ruolo essenziale e di fondamentale importanza, eppure sono state rapidamente dimenticate dalla storia, la quale è stata scritta e raccontata soltanto da uomini.
Nel secondo dopoguerra, dunque, in un contesto di rivendicazione del ruolo del combattente partigiano, molti libri scritti da donne vennero minimizzati e in alcuni casi dissacrati poichè del parere che le autrici non sapevano cosa fosse stata davvero la resistenza. Viganò fu destinata a un trattamento di favore soltanto in nome della figura di suo marito, Antonio Meluschi, comandante partigiano tra i volti più importanti e unanimemente riconosciuti.
“L’Agnese va a morire” non solo fu accolto positivamente dalla critica, ma si aggiudicò il premio Viareggio nel 1949. Venne ritenuta una notevole testimonianza dal tono realistico e coraggioso.
Nella figura di Agnese, Viganò ha rivisto e raccontato la storia di ogni donna, costretta dagli eventi a rispondere al sopruso con la morte. Agnese difatti sarà costretta a uccidere un tedesco per scappare e questo gesto, per quanto riconosciuto come unico possibile e giusto, la perseguiterà per tutta la vita. Sebbene distrutta dal freddo, dalle ostiche condizioni di vita e dai continui spostamenti tra gli umidi campi della pianura padana, Agnese resiste, assiste i compagni, procaccia il cibo e rassetta i vestiti. Tutti riconosceranno il suo inestimabile valore nella lotta partigiana, ricorderanno quell’insaziabile e spassionata dedizione al prossimo che solo un genitore può avere.
Agnese si erge dunque a simbolo, è tutte le donne, è la resistenza, è ognuno di loro, ma a dire il vero è ognuno di noi.
Poichè, ricordiamolo, senza quegli uomini, ma soprattutto senza quelle donne, noi ora non saremmo qui.